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Decreto sicurezza per Ong: parla l’ammiraglio Alessandro

Nota pubblicata su AgenSIR il 29 dicembre del 2022

Decreto sicurezza per Ong: ammiraglio Alessandro (Comitato per il diritto al soccorso), “non diminuirà partenze ma solo arrivi, con saldo insostenibile di altre vittime del mare”.

Il decreto “sicurezza” del governo Meloni “imporrà alle navi Ong (e solo a loro, contro ogni principio di uguaglianza) di non spendersi completamente nel salvataggio delle persone in mare. Dovranno compiere un soccorso per volta e rivolgersi subito a Roma che assegnerà, come sta già facendo, non il porto più vicino previsto dalla legge, ma il più distante dai luoghi in cui servono aiuto e soccorritori”. È il commento di Vittorio Alessandro – ammiraglio in congedo dalle Capitanerie di porto e membro del Comitato per il diritto al soccorso – in merito al decreto legge recante disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori approvato dal Consiglio dei ministri il 28 dicembre ’22. “La nuova norma cancella trasbordi, rapidità dell’azione e rapido ricovero in porto – precisa –, tutto ciò che fa parte della cultura del mare e che le unità del soccorso istituzionale e le navi mercantili praticano quotidianamente. Essa soffoca in una logica da taxi del mare l’ingegno generoso del salvataggio marittimo”. “Dice il governo che così diminuiranno le partenze, ma non è vero – sottolinea –: la gente continuerà a partire sempre, come può. Saranno gli arrivi a ridursi e il saldo sarà quello, insostenibile, di altre vittime in mare”.

L’umanità annegata

Articolo di Luigi Manconi pubblicato su La Stampa il 29 dicembre del 2022

Il decreto legge Sicurezza, approvato ieri dal Consiglio dei ministri, sull’attività delle organizzazioni non governative dà la misura di quanto possa essere profondo e irreparabile lo scarto tra la Vita e la Norma, tra i sentimenti e i movimenti umani e la legge, tra i bisogni primari, quali la sopravvivenza e la libertà, e i codici e i regolamenti. La tentazione ricorrente dei governi conservatori e reazionari è di colmare quello scarto attraverso misure d’autorità, finalizzate a imporre l’ordine e a controllare i conflitti. Sembra essere questo il motivo ispiratore del provvedimento governativo sulle Ong.

La posta in gioco è il soccorso in mare e, da millenni, questo richiama una fondamentale questione di vita e di morte. La possibilità, cioè, di sottrarre al mare una esistenza umana o di abbandonarla a esso. Tra le due opzioni non c’è una mediazione possibile né un compromesso di sorta. E scegliere sempre e comunque la salvezza di una vita significa scegliere la civiltà, perché – questo è il punto – il diritto al soccorso fonda l’intero sistema dei diritti universali della persona. Questo si basa, infatti, sul principio e sul vincolo della reciprocità: io salvo te perché so che domani, se la mia vita fosse in pericolo, tu salveresti me. È la base stessa del formarsi della comunità umana, del sistema di relazioni interpersonali, quello che segna il passaggio da individuo isolato a individuo sociale. È questa la ragione che dovrebbe indurre a trattare la materia delle Ong del mare con il massimo senso di responsabilità. Cosa che il governo non ha voluto fare.

Da sempre, la storia e la geografia e, poi, l’immaginario letterario, quello cinematografico e quello della musica popolare ci hanno consegnato immagini tragiche dei naufragi: il precipitare in mare, l’affondare, i polmoni che si riempiono d’acqua, il boccheggiare, i corpi che si gonfiano e che galleggiano, le mani che si avvinghiano ai resti delle imbarcazioni, ai salvagente, ad altre mani. E, ancora, i tratti “più moderni” del disastro: la pelle che si ustiona e si decompone, bruciata dalla miscela di carburante e acqua salata, i bambini serrati in un abbraccio alle proprie madri come figure di un sepolcro sottomarino o abbandonati su spiagge remote come relitti. Per converso, il naufragio sono braccia che si tendono, soccoritori che si lanciano in mare, scialuppe e giubbotti di salvataggio: è un’attività che richiede cuore e mente, forza e intelligenza e coraggio.

Tutto questo nel decreto legge del governo viene ridotto a dispositivo burocratico, a un sistema di proibizioni e divieti, destinato a tradursi – nel caso di violazioni – in un apparato di multe, sanzioni, sequestri e confische. L’attività di salvataggio viene bloccata e incapsulata dentro una gabbia rigida, che palesemente sembra aver dimenticato quello che dovrebbe essere il suo scopo essenziale. Ossia salvare tutte le vite umane che è possibile salvare. Come spiegare altrimenti una norma che dispone che per ogni missione si possa effettuare una sola operazione di salvataggio? Pertanto, dopo aver soccorso le imbarcazioni in difficoltà, l’Ong non potrà effettuare altri salvataggi e nemmeno potrà realizzare trasbordi da una nave all’altra. Dunque, recuperato un determinato gruppo di profughi la missione va considerata esaurita, quasi fosse scattato una sorta di “numero chiuso” della salvezza possibile.

Una simile volontà governativa di “disciplinamento” può avere una sola motivazione: quella di scoraggiare e interdire la presenza delle navi delle Ong nei tratti di mare dove si concentrano le imbarcazioni dei profughi; e di stravolgere la finalità dell’azione di soccorso, trasformandola in attività di controllo e repressione. Non può essere che questo il senso di una disposizione che impone di fornire “alle autorità di pubblica sicurezza le informazioni richieste ai fini dell’acquisizione di elementi relativi all’accertamento di eventuali ipotesi di reato connesse all’immigrazione irregolare”. Ma anche l’altra attività che sarebbe demandata agli operatori delle Ong (la raccolta delle richieste di protezione umanitaria) è estranea alla finalità del soccorso, come da tempo affermato dalle corti internazionali, e destinata inevitabilmente a produrre infiniti contenziosi.

In altre parole, questo nuovo decreto Sicurezza riproduce l’errore capitale in cui sono incorsi quelli precedenti. Ignora (finge di ignorare) che l’emergenza non è rappresentata dalle Ong e dai loro comportamenti non conformi alla politica dei governi, bensì dalla cifra crudele di quelle morti (circa 2 mila nel solo 2022) che si registrano nel Mediterraneo centrale, anno dopo anno, in una strage infinita e insensata. L’azione delle Ong ha contenuto e ridotto questa macabra contabilità: combatterle ha il solo effetto di incrementare il numero delle vittime.

Nel 1979 il filosofo tedesco Hans Blumenberg pubblicava un breve testo, Naufragio con spettatore, dove rifletteva su quella metafora così cruciale per la civiltà dell’Occidente, che racconta il rapporto tra pensiero e tragedia e tra contemplazione e azione. Ecco, nell’assuefarci a questo ruolo di spettatori, cresce il rischio che si possa diventare complici. Se già non lo si è.

Decreti sicurezza. Ong in mare dopo la stretta. Spataro: «Ora disobbedienza civile»

Articolo di Nello Scavo pubblicato su Avvenire il 30 dicembre del 2022

L’ex magistrato: «Le sanzioni amministrative? Così si tenta di scavalcare la competenza giudiziaria, seguendo la via populista». Medici senza frontiere annuncia: domani si salpa da Augusta.

«Davanti all’ultimo dei decreti sicurezza, non resta che rispolverare “la disobbedienza civile”» Come membro del Comitato per il soccorso in mare e finanziatore dell’acquisto di una nave, «sono convinto che non serve alcuna autorizzazione per salvare vite». Le parole di Armando Spataro sono macigni. Già procuratore capo a Torino, da procuratore aggiunto a Milano ha condotto e portato a termine, fino a condanne definitive, alcune delle più scottanti inchieste sul terrorismo e la criminalità internazionale, comprese le violazioni dei diritti umani commesse dai servizi segreti occidentali.

Qual è il suo giudizio sul “codice di condotta” per le organizzazioni di soccorso in mare?

Fermo restando che ogni commento potrà essere più preciso quando disporremo di un testo ufficiale, non posso non esprimere meraviglia davanti all’uso della decretazione d’urgenza per colpire le Ong. Parliamoci chiaro: questo può definirsi, senza se e senza ma, come “decreto anti-ong”. Perché interviene senza neanche rinforzare le attività di soccorso che competerebbero allo Stato, ma segue una via populista con lo scopo di limitare le attività umanitarie, per l’ennesima volta in nome della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, che però non c’entrano nulla.

Eppure il governo sostiene il contrario: regolamentare le Ong anche per tenere in sicurezza i territori.

Non c’è mai stata una sola volta in cui le ipotesi più fantasiose (dal rischio terrorismo alla presunta connessione tra Ong e trafficanti) siano state provate. All’inizio si diceva che questa iniziativa del governo sarebbe intervenuta anche su altri campi, invece lo fa solo contro le organizzazioni umanitarie. Si vuole esclusivamente limitare l’intervento di chi vuole salvare vite umane, addirittura vietando i trasbordi delle persone soccorse. E si vorrebbe che le istituzioni e i cittadini di una democrazia si facessero semplicemente spettatori di una tragedia.

Nel “decreto Piantedosi” viene esclusa la sfera di intervento penale, preferendo la via delle sanzioni amministrative. Perché?

Già in passato vi sono stati provvedimenti che contemplavano enormi sanzioni amministrative, anche più pesanti di quanto non si faccia adesso. Ora però si tenta di scavalcare la competenza giudiziaria. Ed è un controsenso che mostra le reali intenzioni. Se si crede che le Ong commettano dei reati, allora dovrebbe essere la magistratura a intervenire con opportune indagini. Invece si sceglie la strada della sanzione amministrativa e la delega al prefetto, per ottenere ciò che sta a cuore a una certa destra: limitare se non addirittura bloccare le Ong.

Domanda al giurista: ravvede nel decreto profili di incostituzionalità?

Non c’è dubbio. Penso ad esempio al divieto di salvataggi plurimi. Proviamo a immaginare una nave che ha salvato dei naufraghi, riceve l’assegnazione del porto sicuro e mentre si dirige verso lo scalo indicato apprende di un altro naufragio. Secondo il decreto non potrebbe intervenire, abbandonando i naufraghi al loro destino, ma incorrendo in una clamorosa violazione del nostro codice penale, che impone il dovere di intervenire e semmai punisce chi vi si sottrae.

Scompare anche l’obbligo per le autorità di indicare il porto sicuro più vicino.

È un’altra delle anomalie. Le norme nazionali e internazionali sono chiare: il salvataggio si conclude quando i naufraghi sbarcano nel porto sicuro più vicino, ma qui lo scopo è tenere le Ong il più lontano possibile dall’area di soccorso. Tutto questo cosa c’entra con l’asserita volontà di voler intervenire per la tutela della sicurezza pubblica?

Altro punto controverso: i naufraghi dovranno manifestare l’interesse a chiedere asilo a bordo della nave di soccorso. Potrà funzionare?

No, per ragioni pratiche e di diritto. Il fatto che si possa prevedere una procedura d’asilo sulle navi, dando per scontato che a occuparsene debba essere lo Stato di bandiera, è priva di qualsiasi base giuridica ed è stata già bocciata dalle corti internazionali. E il ragionamento di fondo è falso: si vuol far credere che le navi Ong siano un fattore di attrazione.

Cosa bisognerebbe fare?

Intanto, ma non è una questione solo italiana, sorvegliare sull’uso che viene fatto dei fondi alla Libia. Se è vero che occorre sostenere anche economicamente gli Stati da cui salpano migranti, e in teoria non c’è nulla di sbagliato, occorre però sapere che fine fanno quei soldi. Ma non c’è un vero controllo e gli aiuti economici servono spesso a favorire la corruzione e non a favorire il potenziamento dei diritti.

2° Conferenza Tre discussioni sul presente

Perché il soccorso in mare non dovrebbe esistere. Ovvero delle vie legali e sicure

📢 Il 𝗖𝗢𝗠𝗜𝗧𝗔𝗧𝗢 𝗣𝗘𝗥 𝗜𝗟 𝗗𝗜𝗥𝗜𝗧𝗧𝗢 𝗔𝗟 𝗦𝗢𝗖𝗖𝗢𝗥𝗦𝗢, costituitosi nel novembre scorso, svolge una funzione di “tutela morale” delle attività di soccorso in mare e di difesa giuridica informata e autorevole delle ONG.

Tra le sue finalità la promozione di una discussione pubblica intorno al tema del diritto al soccorso. Altro obiettivo è agevolare le relazioni tra le ONG e istituzioni.

All’interno di questo perimetro operativo, il Comitato organizza una serie di conferenze dal titolo “𝗧𝗥𝗘 𝗗𝗜𝗦𝗖𝗨𝗦𝗦𝗜𝗢𝗡𝗜 𝗦𝗨𝗟 𝗣𝗥𝗘𝗦𝗘𝗡𝗧𝗘” che si terranno nei mesi di febbraio, marzo, aprile 2021.

Gli eventi saranno in diretta sulle pagine Facebook e YouTube del Comitato.

🔴 2° conferenza “Perché il soccorso in mare non dovrebbe esistere. Ovvero delle vie legali e sicure”
> 24 marzo ore 18.00
introduce: Luigi Manconi
intervengono: Gherardo Colombo, Annalisa Camilli, Paolo Naso, Armando Spataro, Francesca Mannocchi

1° Conferenza Tre discussioni sul presente

Il diritto al soccorso come principio irrinunciabile. Diritto del mare e diritto internazionale

📢 Il 𝗖𝗢𝗠𝗜𝗧𝗔𝗧𝗢 𝗣𝗘𝗥 𝗜𝗟 𝗗𝗜𝗥𝗜𝗧𝗧𝗢 𝗔𝗟 𝗦𝗢𝗖𝗖𝗢𝗥𝗦𝗢, costituitosi nel novembre scorso, svolge una funzione di “tutela morale” delle attività di soccorso in mare e di difesa giuridica informata e autorevole delle ONG.

Tra le sue finalità la promozione di una discussione pubblica intorno al tema del diritto al soccorso. Altro obiettivo è agevolare le relazioni tra le ONG e istituzioni.

All’interno di questo perimetro operativo, il Comitato organizza una serie di conferenze dal titolo “𝗧𝗥𝗘 𝗗𝗜𝗦𝗖𝗨𝗦𝗦𝗜𝗢𝗡𝗜 𝗦𝗨𝗟 𝗣𝗥𝗘𝗦𝗘𝗡𝗧𝗘” che si terranno nei mesi di febbraio, marzo, aprile 2021.

Gli eventi saranno in diretta sulle pagine Facebook e YouTube del Comitato.

🔴 1° conferenza “Il diritto al soccorso come principio irrinunciabile. Diritto del mare e diritto internazionale”
> 24 febbraio ore 18.00

introduce: 𝗟𝘂𝗶𝗴𝗶 𝗠𝗮𝗻𝗰𝗼𝗻𝗶
intervengono: 𝗚𝗮𝗱 𝗟𝗲𝗿𝗻𝗲𝗿, 𝗙𝗿𝗮𝗻𝗰𝗲𝘀𝗰𝗮 𝗱𝗲 𝗩𝗶𝘁𝘁𝗼𝗿, 𝗟𝘂𝗶𝗴𝗶 𝗙𝗲𝗿𝗿𝗮𝗷𝗼𝗹𝗶 𝗲 𝗩𝗶𝘁𝘁𝗼𝗿𝗶𝗼 𝗔𝗹𝗲𝘀𝘀𝗮𝗻𝗱𝗿𝗼
coordina: 𝗔𝗻𝗻𝗮𝗹𝗶𝘀𝗮 𝗖𝗮𝗺𝗶𝗹𝗹𝗶

A quattro anni dall’accordo Italia-Libia

Diffondiamo un articolo pubblicato da Sea Watch

Oltre 785 milioni spesi dall’Italia per sostenere un accordo che, senza fermare le morti in mare, ha consentito il respingimento in Libia di 50 mila persone, di cui 12 mila solo nel 2020.

Nell’anniversario della firma del Memorandum, l’appello al Parlamento di ASGI, Emergency, Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Oxfam e SeaWatch, per un’immediata revoca degli accordi con le autorità libiche e il ripristino delle attività di Ricerca e Soccorso nel Mediterraneo centrale.

(Roma, 2 febbraio 2021) Il bilancio, a quattro anni dall’accordo Italia-Libia sul contenimento dei flussi migratori, è sempre più desolante e riflette il fallimento della politica italiana ed europea, che continua a stanziare fondi pubblici col solo obiettivo di bloccare gli arrivi nel nostro paese, a scapito della tutela dei diritti umani e delle continue morti in mare. Senza disegnare nessuna soluzione di medio-lungo periodo per costruire canali sicuri di accesso regolare verso l’Italia e l’Europa.

È l’allarme diffuso oggi da ASGI, Emergency, Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Oxfam e SeaWatch, che rilanciano un appello urgente al Parlamento, per un’immediata revoca degli accordi bilaterali e il ripristino di attività istituzionali di Ricerca e Soccorso nel Mediterraneo centrale.

“Dalla firma dell’accordo, l’Italia, in totale continuità con l’approccio europeo di esternalizzazione del controllo delle frontiere, ha speso la cifra record di 785 milioni euro (1) per bloccare  i  flussi migratori in Libia e finanziare le missioni navali italiane ed europee.affermano le organizzazioni firmatarie dell’appello –  Una buona parte di quei soldi – più di 210 milioni di euro – sono stati spesi direttamente nel paese, ma purtroppo non hanno fatto altro che contribuire a destabilizzarlo ulteriormente e spinto i trafficanti di persone a convertire il business del contrabbando e della tratta di esseri umani, in industria della detenzione. La Libia non può essere considerata un luogo sicuro dove portare le persone intercettate in mare, bensì un paese in cui violenza e brutalità rappresentano la quotidianità per migliaia di migranti e rifugiati“.

Libia: tutt’altro che porto sicuro

Come riconosciuto dalle istituzioni internazionali ed europee, comprese le Nazioni Unite e la Commissione europea, la Libia non può in alcun modo essere considerata un luogo sicuro dove far sbarcare le persone soccorse in mare: sia perché è un Paese instabile, dove non possono essere garantiti i diritti fondamentali, sia perché migranti e rifugiati sono sistematicamente esposti al rischio di sfruttamento, violenza e tortura e altre gravi e ben documentate violazioni dei diritti umani. Eppure, continua ad aumentare il contributo italiano ed europeo alla Guardia Costiera libica, che negli ultimi 4 anni ha intercettato e riportato forzatamente nel Paese almeno 50 mila persone, 12 mila solo nel 2020.

Molti vengono detenuti arbitrariamente nei centri di detenzione ufficiali, dove la popolazione oscilla tra le 2.000 e le 2.500 persone. Tuttavia, meno noti sono i numeri dei detenuti in altri luoghi di prigionia clandestini a cui le Nazioni Unite e altre agenzie umanitarie non hanno accesso e dove le condizioni di vita sono persino peggiori.  La detenzione arbitraria è però solo una piccola parte del devastante ciclo di violenza, in cui sono intrappolati migliaia di migranti e rifugiati in Libia. Uccisioni, rapimenti, maltrattamenti a scopo di estorsione sono minacce quotidiane, che continuano a spingere le persone alle pericolose traversate in mare, in assenza di modi più sicuri per cercare protezione in Europa.

Obiettivo raggiunto: nessun soccorso nel Mediterraneo centrale

Dal 2017 – denunciano ancora le 6 organizzazioni – sono stati spesi 540 milioni di euro dall’Italia, solo per finanziare missioni navali nel Mediterraneo, il cui scopo principale non era quello di soccorrere le persone. Nello stesso periodo, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), quasi 6.500 persone sono morte nel tentativo di raggiungere l’Europa attraverso il Mediterraneo centrale, mentre tutti i governi italiani che si sono succeduti hanno ostacolato l’attività delle navi umanitarie, senza fornire alternative alla loro presenza in mare. Persino le recenti modifiche della normativa in materia di immigrazione non hanno di fatto eliminato il principio di criminalizzazione dei soccorsi in mare, che era stato introdotto dal secondo Decreto Sicurezza.

Nel corso del 2020, l’Italia ha bloccato inoltre sei navi umanitarie con fermi amministrativi basati su accuse pretestuose, lasciando il Mediterraneo privo di assetti di ricerca e soccorso e ignorando, allo stesso tempo, le segnalazioni di imbarcazioni in pericolo. Contribuendo così alle 780 morti e al respingimento di circa 12.000 persone, documentate durante il corso dell’anno dall’OIM.

Infatti, la risposta delle istituzioni Ue alla crisi umanitaria nel Mediterraneo centrale si limita alle operazioni di monitoraggio aereo di Frontex, EUNAVFORMED Sophia e, ora, Irini, che di fatto contribuiscono spesso alla facilitazione dei respingimenti verso la Libia. Intanto le operazioni di monitoraggio aereo civile, seppur discontinue e anch’esse ostacolate, nel 2020 hanno avvistato quasi 5.000 persone in pericolo in mare in 82 casi, testimoniando continui episodi di mancata o ritardata assistenza da parte delle autorità.

Dall’Italia, nessuna notizia sulla dichiarata modifica dell’accordo

Infine, pur di fronte al tragico fallimento dell’accordo da anni sotto gli occhi dell’opinione pubblica –sottolineano le organizzazioni – nulla si è più saputo rispetto alla proposta libica di modifica del Memorandum, annunciata il 26 giugno 2020 e che a detta del Ministro degli Esteri Luigi di Maio andava “nella direzione della volontà italiana di rafforzare la piena tutela dei diritti umani”.

Né tantomeno sono stati resi noti gli esiti della riunione del 2 luglio 2020 del Comitato interministeriale italo-libico, o se ci siano stati nuovi incontri, e neppure a quali eventuali esiti finali sia giunto il negoziato che avrebbe dovuto portare un deciso cambio di rotta nei contenuti dell’accordo.

L’appello al Parlamento

Tenendo conto dell’attuale crisi politica, le organizzazioni chiedono quindi al Parlamento di istituire una Commissione di inchiesta, che indaghi sul reale impatto dei soldi spesi in Libia e sui naufragi nel Mediterraneo e di presentare un testo che impegni il Governo a:

  • interrompere l’accordo Italia-Libia, subordinando qualsiasi futuro accordo bilaterale alla transizione politica della crisi libica, nonché alle necessarie riforme del sistema giuridico che eliminino la detenzione arbitraria e prevedano adeguate misure di assistenza e protezione per migranti e rifugiati;
  • dare l’indirizzo a non rinnovare le missioni militari in Libia, chiedendo con forza la chiusura dei centri di detenzione nel paese nord-africano;
  • promuovere, in sede europea, l’approvazione di un piano di evacuazione dalla Libia delle persone più vulnerabili e a rischio di subire violenze, maltrattamenti e gravi abusi;
  • dare mandato per l’istituzione di una missione navale europea con chiaro compito di ricerca e salvataggio delle persone in mare;
  • promuovere, in sede europea, l’approvazione di un meccanismo automatico per lo sbarco immediato e la successiva redistribuzione delle persone in arrivo sulle coste meridionali europee, sulla base del principio di condivisione delle responsabilità tra stati membri su asilo e immigrazione;
  • promuovere la revoca dell’area di ricerca e soccorso libica, poiché solo finalizzata all’intercettazione e al respingimento illegale delle persone in Libia;
  • riconoscere il ruolo delle organizzazioni umanitarie nella salvaguardia della vita umana in mare, mettendo fine alla loro criminalizzazione e liberando le loro navi ancora sotto fermo.

NOTE:

  1. il dettaglio dei fondi spesi è riportato da questa tabella di analisi elaborata da Oxfam
MISSIONE 2017 2018 2019 2020 TOT
4 MISSIONI IN LIBIA       0
21 (Poi divenuta 20) UNSMIL 0,5 0,4 0,1 0,1 1,1
22 (Poi divenuta 21) Missione bilaterale supporto Libia 43,6 49,1 49,0 47,9 189,6
23 (Poi divenuta22) Supporto Guardia Costiera Libica 3,6 1,6 6,9 10,0 22,1
24 EUBAM 0,3 0,3 0,3 0,3 1,1
TOTALE 4 MISSIONI IN LIBIA 47,9 51,4 56,3 58,3 213,9
MARE SICURO 83,9 84,7 85,2 79,0 332,8
EUNAVFORMED/IRINI* 43,1 42,5 41,3 24,9 151,8
SEAGUARDIAN 17,5 17,7 6,3 15,0 56,5
FONDI DEVOLUTI AD Agenzie delle Nazioni Unite attraverso il Fondo Africa** 30,0 30,0
785,0

La condanna dell’ONU contro l’Italia

L’Italia non è riuscita a salvare più di 200 migranti, rileva il Comitato delle Nazioni Unite

GINEVRA (27 gennaio 2021) – L’Italia non è riuscita a tutelare il diritto alla vita di oltre 200 migranti che erano a bordo di una nave affondata nel Mediterraneo nel 2013, ha rilevato il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite.

In una decisione pubblicata oggi, il Comitato per i diritti umani ha affermato che l’Italia non ha risposto prontamente alle varie chiamate di soccorso dalla barca che affondava e che trasportava più di 400 adulti e bambini. Lo Stato italiano ha anche omesso di spiegare il ritardo nell’invio della sua nave della marina, ITS Libra, che si trovava a solo un’ora circa dalla scena.

La decisione del Comitato risponde a una denuncia congiunta presentata da tre siriani e un cittadino palestinese, sopravvissuti all’incidente ma che hanno perso le loro famiglie. Il 10 ottobre 2013 sono arrivati ​​a Zuwarah, un porto di pescatori in Libia e si sono uniti a un folto gruppo di persone in gran parte in fuga dalla Siria. Si sono imbarcati su un peschereccio e sono salpati intorno all’una di notte. Poche ore dopo,  la barca imbarcava acqua stava perché colpita da un’altra barca battente bandiera berbera in acque internazionali, a 113 km a sud dell’isola italiana di Lampedusa e 218 km a sud di Malta.

Uno dei naufraghi a bordo ha chiamato il numero italiano per le emergenze in mare, dicendo che stavano affondando e inoltrando le coordinate della barca. Ha chiamato più volte nelle ore successive, ma solo dopo le 13:00 è stato informato che, poiché si trovavano nella zona di ricerca e soccorso maltese, le autorità italiane avevano inoltrato la loro chiamata di soccorso all’autorità maltese. Nonostante l’emergenza, l’operatore italiano ha trasmesso loro solo il numero di telefono del Centro di coordinamento dei soccorsi di Malta.

I migranti hanno fatto diverse telefonate, sempre più disperate, al Centro di coordinamento del soccorso e alle forze armate di Malta tra le 13:00 e le 15:00. Quando una motovedetta maltese è arrivata sulla scena alle 17:50, la nave si era già capovolta. Come da richiesta urgente di Malta, l’Italia ha finalmente ordinato alla sua nave della marina militare ITS Libra, che si trovava nelle vicinanze della barca, di andare in soccorso dopo le 18:00. A causa del ritardo nell’azione, oltre 200 persone, tra cui 60 bambini, sono annegate. Alcuni migranti sopravvissuti hanno portato le autorità italiane davanti a vari tribunali e al Comitato poiché l’Italia non ha adottato misure appropriate per salvare i loro parenti e quindi ha violato il loro diritto alla vita. “È un caso complesso. L’incidente è avvenuto nelle acque internazionali all’interno della zona di ricerca e soccorso maltese, ma il luogo era effettivamente più vicino all’Italia e ad una delle sue navi militari. Se le autorità italiane avessero diretto immediatamente la sua nave da guerra e le barche della guardia costiera dopo le chiamate di soccorso, il salvataggio sarebbe arrivato almeno due ore prima che la barca affondasse”, ha detto il membro del comitato Hélène Tigroudja. “Gli Stati parti sono tenuti, in base al diritto internazionale del mare, a prendere provvedimenti per proteggere la vita di tutti gli individui che si trovano in una situazione di pericolo in mare. Anche se la nave che stava affondando non si trovava nella zona di ricerca e soccorso italiana, le autorità italiane avevano il dovere di sostenere la missione di ricerca e soccorso per salvare le vite dei migranti. L’azione ritardata dell’Italia ha avuto un impatto diretto sulla perdita di centinaia di vite “, ha aggiunto Tigroudja. Il Comitato ha esortato l’Italia a procedere con un’indagine indipendente e tempestiva e a perseguire i responsabili. Anche l’Italia e gli altri paesi coinvolti nella tragedia devono fornire un risarcimento efficace a coloro che hanno perso la famiglia nell’incidente. Un reclamo parallelo presentato contro Malta è stato respinto dal Comitato in quanto i querelanti non hanno avviato procedimenti legali davanti ai tribunali di Malta, che è uno dei requisiti, prima di presentare il loro caso al Comitato.

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Comitato per il diritto al soccorso